A cura di: Redazione
Fonte: Napolicalcionews.it
C’era una volta un allenatore che aveva guidato il popolo
alla presa della Bastiglia. A Napoli, Luciano Spalletti era stato il
condottiero che aveva abbattuto l’ordine antico del calcio italiano. Mentre le grandi del Nord si spartivano i troni, lui aveva
costruito un esercito di uomini e idee, unito dalla fame, dal talento, dalla
rabbia di chi per anni aveva guardato il potere da lontano. Aveva acceso il fuoco sotto il Vesuvio e lo aveva
trasformato in bandiera. Lo stadio Maradona era diventato la piazza della
Rivoluzione. Ogni partita, un assalto. Ogni vittoria, una conquista. Quando arrivò lo scudetto, non fu solo un trofeo: fu la
caduta del Palazzo. La città si rovesciò per strada come un popolo in festa dopo
secoli di attesa. E lui, Spalletti, era l’uomo del popolo, il comandante che
aveva mantenuto la promessa, ma la storia, si sa, non si ferma al giorno della
vittoria. Finita la Rivoluzione, arriva la Restaurazione. E così, l’allenatore che aveva incendiato le piazze ora
entra nei corridoi del potere. Non più la tuta sgualcita dell’uomo di trincea, ma la divisa
elegante di corte. Non più il boato del popolo, ma i silenzi levigati delle
stanze dove si decide chi vince e chi perde. È come se il generale che aveva guidato l’assalto alla
Bastiglia fosse stato invitato a Versailles per servire il Re. Come se Danton
avesse accettato di lucidare il trono che aveva fatto tremare. E lui, Spalletti, con il tatuaggio dello scudetto inciso sul
braccio, dovrà nasconderlo sotto la manica della nuova tuta bianconera: il
simbolo della rivolta coperto dall’uniforme del potere. Qualcuno dirà che è solo lavoro, che il calcio è mestiere,
che non ci sono rivoluzioni che durano per sempre. Si, forse, ma a Napoli certe
cose non si dimenticano. A Napoli ogni promessa ha un peso, ogni parola resta
appesa tra il Vesuvio e il mare. E quando un uomo che aveva giurato “mai
un’altra tuta di Serie A” indossa quella della Juventus, il popolo non parla:
guarda, e ricorda. Spalletti, l’uomo che aveva acceso la rivoluzione, adesso
cammina nei saloni di Versailles. Non è più il comandante del popolo, ma il
funzionario dell’ordine. Forse non si è arreso, forse ha solo scelto di
sopravvivere, ma la storia non distingue, la storia, semplicemente, registra.
Alla fine, le sue parole più celebri tornano indietro come
un’eco amara: “Uomini forti, destini forti”, diceva, ma questa volta sembra
valere il contrario: ci sono destini così forti da rendere deboli anche gli
uomini che li inseguono. A cura di Luigi Pezzella
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