A cura di: Redazione
Fonte: Napolicalcionews.it
C’è stato un tempo in cui la Nazionale italiana incuteva
rispetto. Non era solo una squadra: era un’istituzione, un pezzo di storia.
Come Roma all’apice del suo splendore, l’Italia del pallone dominava i confini
del mondo conosciuto: quattro Mondiali, un’identità feroce, un’aura che
spaventava gli avversari prima ancora del fischio d’inizio. Oggi, invece, ci
ritroviamo a osservare le macerie di un impero sportivo che si sgretola
lentamente, quasi senza che ce ne accorgessimo davvero. La sconfitta con la
Norvegia di domenica – fragorosa, simbolica – è l’ennesimo avviso di un declino
che non può più essere ignorato. All’Impero romano d’Occidente non bastarono la gloria
passata e le vittorie scolpite nella pietra per fermare l’avanzata delle
popolazioni barbariche. I Visigoti di Alarico, i Vandali: un tempo considerati
inferiori, poi diventati la minaccia più concreta. Nel nostro piccolo, anche il
calcio italiano vive la stessa traiettoria. Macedonia del Nord, Svizzera,
Albania, e ora la Norvegia: avversari che non sono più comprimari. Non sono
cresciuti soltanto loro: siamo noi che abbiamo perso terreno, come un impero
incapace di leggere i cambiamenti del mondo che lo circonda. Roma non cadde soltanto per la pressione dei barbari. Il
vero terremoto fu interno: inefficienze, riforme mancate, amministrazioni
incapaci di anticipare il futuro. E l’Italia del calcio non è diversa. Il
problema non è la singola sconfitta, ma il sistema intero: vivai impoveriti,
club che preferiscono stranieri pronti subito, giovani schiacciati in panchina,
idee confuse ai piani alti, un’identità di gioco che cambia alla velocità con
cui un imperatore veniva deposto. La fragilità interna è ciò che rende
inevitabili le invasioni esterne. Anche l’Impero romano, nella sua lunga agonia, ebbe
un’ultima fiammata. Ci furono tentativi di riforma, battaglie vinte, illusioni
di una restaurazione possibile. Per noi quell’illusione ha un nome preciso:
Europeo 2021. Una vittoria splendida, forse l’ultimo lampo di una grandezza che
già stava declinando. La Nazionale giocava un calcio moderno, convincente,
elettrico, ma dietro quel miracolo, come dietro le manovre degli ultimi
imperatori illuminati, si nascondeva una struttura arrugginita, incapace di
reggere il ritmo del presente. La caduta dell’Impero fu definitiva quando Roma
non riuscì più a difendere nemmeno le sue città centrali, quando ciò che era
scontato smise di esserlo. La sconfitta con la Norvegia è la nostra metafora
perfetta: un tempo sarebbe stata routine, oggi è un Everest. L’Italia non fa
più paura, e questo è forse il dato più drammatico. La percezione della nostra
grandezza si è ribaltata: non siamo più l’Urbe inviolabile, ma una città
assediata. Eppure la storia di Roma ci insegna che la caduta non è
necessariamente la fine. Dalle sue rovine nacquero nuovi mondi, nuove culture,
nuovi equilibri. L’Italia calcistica può fare lo stesso, a patto di avere il
coraggio di cambiare davvero: riformare il movimento giovanile, costruire una
linea tecnica chiara, investire nella formazione, smettere di rincorrere nostalgia
e improvvisazione. Il passato non basta più, e le macerie possono essere un
punto finale o un punto di partenza. La storia raramente si ripete, ma spesso fa rima. Oggi la
Nazionale è il nostro piccolo Impero romano d’Occidente: un gigante stanco che
non riesce più a capire il proprio tempo. La caduta è evidente. La rinascita,
invece, dipende da quanto siamo disposti ad abbandonare ciò che eravamo per
costruire ciò che potremmo tornare a essere.
A cura di Luigi
Pezzella
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