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GIOVEDÌ 6 OTTOBRE 2022 - INTERVISTE

SIMEONE: “DOVEVO VENIRE A NAPOLI, LO SENTIVO; IL GOL AL LIVERPOOL, SENSAZIONE INSPIEGABILE…”


Maradona è presente nel cuore della gente, ‘vive’ a Napoli


 
     
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A cura di: Maria Villani
Fonte: La Nacion

È sotto i riflettori Giovanni Simeone, non solo per il bell’inizio con il Napoli ma in modo speciale per il gol segnato ad Amsterdam. L’attaccante azzurro è stato intervistato da La Nacion e ai microfoni del quotidiano argentino ha parlato a lungo e di molti argomenti, tra cui, nella parte finale anche del Napoli. L’intervista in traduzione in forma integrale (QUI PER LEGGERLA IN ORIGINALE)

Ha pochi tatuaggi, una rarità tra tante macchie di inchiostro che decorano i calciatori. La lettera G stilizzata che unisce i nomi dei tre fratelli maschi, una canna da pesca, il simbolo del ki sulla caviglia sinistra che simbolizza l’ energia interiore ed il logo della Champions League. Proprio quello che si è tatuato a 14 anni, contro la volontà di suo padre, ed ha giurato di non fermarsi finché non sarebbe entrato a far parte del torneo. E ci è riuscito in questa stagione e dopo partite – anche se ha accumulato appena 153 minuti – ha già segnato due gol. Però c’è un altro tatuaggio: la firma di nonno Carlos Simeone. “Un giorno l’ho sorpreso. Gli dissi: ‘Guarda che cosa ho fatto, nonno’, e glielo mostrai. Tacque, lo guardò e si mise a piangere. Diede un bacio al tatuaggio e mi disse ‘ti voglio bene’. E sapete bene quanto costasse dire ti voglio bene a mio nonno?”.

E a tuo padre?

Più o meno lo stesso…

Preparatevi a leggere un’intervista diversa, non ci sono meriti in chi domanda. Sembrerà che le risposte siano di un veterano, di uno tappezzato di cicatrici che vive la parte finale della sua carriera. Invece no, Giovanni Simeone viaggia per i 27 anni nel pieno di una carriera che ha costruito con determinazione per sfuggire alle sottovalutazioni e alle perplessità.

“Essere figlio dà dei vantaggi, non lo nego, ma d’altro canto tutto costa un po’ di più. La mia battaglia è stata sempre il dimostrare che ero uguale agli altri e che non ero solo il figlio… Al principio non mi piaceva il soprannome ‘Cholito’, però ora mi sto rendendo conto che ‘Cholito’… va oltre mio padre. Ed ora mi piace molto che mi chiamino così, ‘Cholito’, perché fanno riferimento a quello che ho fatto e che faccio ancora in Italia”. E sono 74 gol in Serie A…

Si è speculato tanto sul fatto che un giorno ti avrebbe diretto il Cholo, e invece ha diretto Giuliano, il minore. 

Sì, e ci sono riusciti molto bene tutti e due. Non c’era maniera più naturale perché padre e figlio si incontrassero, perché la situazione non era semplice. Immaginate un po’ se a qualcuno dei giocatori magari non piace mio padre e ti ritirano dal gruppo pensando che queste critiche potevano andare a raccontarle. Quel tempo insieme all’ Atletico lo hanno gestito bene tutti e due. 

Continui a pensare che Giuliano sia il migliore dei tre fratelli?

Ho sempre detto che era il migliore. Per le sue caratteristiche, con la palla è il migliore dei tre. Ma nel calcio ci vuole molto di più di giocar bene con la palla e, a partire da ora, a 19 anni, dipenderà molto da come risolverà le situazioni che gli si presenteranno nel calcio. Ho visto molti giocatori che giocano molto bene e non ce l’hanno fatta. Giuliano gioca molto bene però ora dipenderà dalla sua personalità. Come giocatore è il migliore dei tre, ma per arrivare a sostenersi ci vogliono molte altre cose.

Rarità e orgoglio. Tre fratelli, goleador e contemporaneamente: Gianluca nello Xerez Deportivo, Giuliano ceduto al Zaragoza e tu.

Vero, è tutta una curiosità… mio padre allenatore in Primera e i tre figlio che giocano in Primera, segunda o tercera… Una famiglia intera, non so se ce ne sarà un’altra attualmente. È una cosa bella perché se io gioco di sabato, so che mio fratello gioca di domenica … A volte Gianluca mi  manda una situazione di gol che ha avuto e la mette nel gruppo familiare e si arma: parliamo della giocata, di cosa sarebbe convenuto fare, che pensa uno, che pensa l’altro…

Dai mai consigli ai tuoi fratelli?

Sì, mi piace molto poter aiutare le persone. Leggo molto sull’autoaiuto, leggo molto sul desiderio di voler vivere una vita che non sia solo calcio. E cerco molto di aiutare i miei fratelli ed anche mio padre. Sono tutti molto passionali. Gianluca è molto intenso, come anche Giuliano, e a volte non distinguono la realtà tra il giocare a calcio e vivere la vita. E a me piace molto poter cercare di aiutarli perché ci sono moltissime cose oltre il calcio. Questo non toglie che occorra viverlo essendo fedeli e genuini verso la loro passione. Ma allo stesso tempo ci sono altre cose che dovranno cercare di apprezzare.

Sei il Simeone più razionale. Quali altre cose ti intrappolano e sono la tua fuga o la tua evasione?

Mi piace molto la meditazione, con gli anni ho imparato a meditare, ho appreso tecniche di respirazione. E leggo molte cose a riguardo. Al momento sto leggendo un libro che si chiama ‘Il club dei 5 del mattino’… Mi piacciono i libri di auotoaiuto, di meditazione, sono letture molto gradevoli, che ti fanno pensare ciò che è realmente importante nella vita. Con Giulia, mia moglie parliamo molto di temi che sono totalmente estranei al calcio. Arrivo a casa e non parlo di calcio. Ci incanta il mare, di solito ci vado moltissimo al mare, per riposare. Oggi il mondo digitale, i telefoni, ti fanno perdere molto tempo. Per me, la meditazione è chiave. Ed anche viaggiare e imparare come vive la gente di altre culture mi propone di capire che il mondo è molto più grande del calcio.

Quanto ti frustra una battuta d’arresto nello sport? Il Mondiale in Qatar si allontana per te, non sei riuscito a essere convocato nella Seleccion.

Io mi creo tutto il tempo l’illusione della convocazione, non abbandono il sogno di rientrare nella lista dei convocati…, ma ci sono molti buoni giocatori, la Seleccion sta bene ed il gruppo è forte, per cui è difficile entrare in un posto dove va tutto bene. L’unica cosa che debbo fare è restare pronto per poter offrire il mio granellino di sabbia in qualsiasi aspetto abbia bisogno la Seleccion. Per quello sarò sempre preparato e non mi demotivo mai. Le chances ce l’ho e le avrò sempre: ogni domenica conto sulla possibilità di dimostrare a Scaloni che voglio esserci. Non mi demotiverò mai. Volerci essere è una sfida e questa va con il mio profilo, quello di superarmi sempre. La Seleccion è un luogo unico e ci voglio stare. E se non ci riesco ora, domani riproverò a convincere tutti. E lo rifarò tutte le volte che sarà necessario.

Ti sei domandato che cosa ti può mancare?

Sì, certo, sono arrivato a chiedermi se sarò al livello di poter competere con i giocatori della Seleccion. E mi domando cosa devo migliorare per poter prendere parte. Me lo chiedo: fare gol? Bene, la scorsa stagione ne ho fatti 17, e l’ho già dimostrato. Però forse qualche altra cosa mi manca. O magari devo solo aspettare il mio momento. In altre parole, aver pazienza. Sì, molte volte mi chiedo cosa mi manca, come riuscirò a fare in modo che Scaloni possa vedermi. Come faccio, cosa devo fare? E mi motivo. Qualcuno magari pensa ‘se non mi chiamano, allora bene, mi rassegno’.  Io no.

Altri potrebbero incolpare Scaloni e far notare che non percepisce il tuo potenziale. 

Questo parlerebbe del mio ego, parlerebbe male di me. Bisogna allontanarsi da questo e cercare di capire cosa manca per poter entrare, in questo caso, nella Seleccion. Se il tecnico non ti vede, è perché devi avere più pazienza o magari migliorare in alcuni aspetti. Quando il tecnico non mi chiama la domenica, per esempio, cerco di capire perché non mi ha chiamato. E lo rispetto, sono i suoi gusti e le sue scelte.  Come mi posso arrabbiare con il tecnico se sceglie Raspadori invece di me? Non mi arrabbio. Ci perdo io se abbasso la guardia e io continuo a competere.

Altri credono che Gallardo si sia sbagliato nel non darti più spazio al River.

Gallardo è stato un grande allenatore con me. E non mi sceglieva perché ero giovane, perché stavo ancora imparando. Mi ha insegnato tantissime cose e lo rispetto moltissimo perché quelli che stavano meglio e facevano gol, lui li sceglieva. Io ero un ragazzino e avevo bisogno di molto minutaggio per potermi adattare e crescere come giocatore e il River, in quel momento, non aveva spazio per giocatori con questa necessità. Con il passar del tempo, comprendo sempre più queste situazioni perché vedo giocatori che necessitano di minutaggio e non li puoi tenere perché sono in posti che non glielo possono offrire. E puoi avere la testa dura, se non ci sono minuti, non ce ne sono. Per questo ho avuto la fortuna di andare al Banfield, dove c’erano questi minuti di cui io avevo bisogno per poter crescere come giocatore. E sono molto grato al Banfield.

Non ci sono  minuti di riempimento nel calcio, tuo padre lo dice sempre. vale questo per te oggi, che ti tocca correre da dietro al Napoli.

Tutti i minuti valgono. È la qualità più che la quantità. L’ho imparato quando mio padre lasciò l’ Argentina e andò in Spagna e io lo vedevo due settimane all’anno. E così che imparai la qualità del tempo. Se avevo poco tempo con il mio papà, dovevo viverlo al massimo perché poi poteva passare anche un anno per tornare a vederlo. Da quel momento ho imparato che la qualità era molto più importante della quantità. Se  i 5, 10, 15 minuti che ti dà un tecnico tu li sai sfruttare, allora certo che tornerà a darti delle possibilità. Sono cresciuto così nel calcio.

Molti calciatori mostrano disinteresse. Per proteggersi, per scaricare la responsabilità sull’allenatore per esempio?

È una cosa molto comune tra i calciatori scaricare la colpa sugli altri. Ho conosciuto molti giocatori che, incluso me stesso, preferivano scaricare sugli altri. L’essere umano tende  responsabilizzare gli altri.  Perché invece non ci fermiamo a pensare ‘per quale ragione è successa questa cosa, che ho fatto perché succedesse, avessi fatto io qualcosa di male?’. No. Preferiamo le scuse. Con una scusa esci dal problema, lo transferisci. Te ne liberi, non è più tuo. Ed è facile puntare il dito contro il tecnico. ‘Non mi convoca’, ‘ha schematizzato male la giocata’… Noi giocatori ci riempiamo di scuse, che poi vanno a finire in riunioni di gruppo che poi alla fine sono tossiche, perché prima o poi, si finisce per parlar male di qualcuno. Questi gruppo sono quelli che non riescono a vincere, sono gruppi negativi, che terminano con lo scaricare la colpa sull’allenatore o su un compagno. Si riempie di gruppetti ed anche la squadra si divide. Nelle squadre che vincono – che sono poche – vedi una gran connessione tra tutti. Non è casuale. E ci sono pochi gruppi così, perché il calcio è pieno di gente che sceglie le scuse. 

Tu sei uno che usa i social. Che significato gli dai?

So che un messaggio può danneggiare tantissimo. E non impatta solo sull’anima ma direttamente sulla salute delle persone. Io li uso i social, m ami riservo un Instagram personale che utilizzo con i miei amici, più intimo, nel quale seguo tutto quello che non ha niente a che vedere con il calcio. Temi  di  pesca, immersione, fotografia di animali e paesaggi, seguo gente che fa meditazione. Alimento il mio mondo interno. Pochissime volte apro il telefono per vedere i messaggi, magari, per vedere qualcosa sulla vita dei miei compagni, per scoprire chi ha segnato un gol… e poco altro.

Come sei riuscito a ottenere questo equilibrio: la passione per andare oltre il calcio e fare in modo che non ti invada?

Non è difficile per me. La passione ti porta a consumare momenti che vanno molto oltre la logica, una passione che ti domina tanto ti consuma da  dentro. E a me questo mi succede ma anche quando sono concentrato, mi metto a guardare una serie, a leggere  un libro... e  lo vivo con molto equilibrio, con naturalezza. Credo che si debba alla mia personalità e perché, insisto, la meditazione mi sta aiutando moltissimo a poter vivere con calma, senza chiedermi o farmi pressioni per questa o quella cosa. L’ adrenalina del calcio non mi imprigiona, la tengo al posto suo, ne ho bisogno per superarmi, ma non mi incarcera, non mi soffoca e non mi toglie la vita.

In questo sei molto diverso dal Cholo? Una volta ci raccontasti che ‘lui per il 70% è calcio, l’altro 30% lo lascia alla famiglia...’

Attenzione però che mi ammazzo fino alla fine per vincere  anche la partita più piccola… il punto è il edopo. Una cosa è vivere il momento con intensità, ok, e qui sono inflessibile, ma dopo, al ritorno a casa, con la famiglia, perché hai bisogno di continuare a pensare al calcio? Nelle occasioni, quando uno pensa troppo è peggio perché la testa non è mai calma, il tuo cervello si consuma, non gli dai ossigeno. Quanto più pensi, meno respiri. Se non dai ossigeno al tuo cervello, i tuoi neuroni lavorano meno. Tutto con i suoi limiti. Ad esempio, io elaboro la visualizzazione delle giocate, ma non molto tempo, un paio di volte e velocemente, poi me ne sto tranquillo. Prima, forse, ripetevo, ripetevo, ripetevo e preovavo tanto nel voler fare qualcosa che… se nel calcio pensi a voler fare un passaggio, magari non puoi farlo. E perdi un tempo. Il calcio è non pensare. Ho sentito dire quelli più stupidi, nel senso di quelli che non sanno tante cose, giocano meglio al calcio. Perché non pensano. Non c’è bisogno di pensare per giocare bene a calcio. E molti giocano bene e risolvono bene perché non pensano. E, per contro, quelli che sono molto intelligenti, si caricano di così tante cose nella testa che alla fine questo influisce negativamente in campo. Il gioco gravita molto intorno all’ instinto, all’intuizione e questo non è ragionare, accade e basta. Poi conviene lasciarsi andare, vivere il presente. Per questo quando arrivo a casa, vivo il presente. Se vivo qualcosa che non sta ancora succedendo, perdo solo tempo.

Immagino il Cholo che ti ascolta e scuote la testa, non riuscendo a capirti. 

-No, non  credere. Guarda che sono già molti anni per lui che vive questa adrenalina…, però ultimamente mio padre mi sta comprendendo moltissimo, creo che dopo la perdita di nonno Carlos (mancato lo scorso marzo) papà ha capito meglio il fatto di condividere di più con noi, essere più presente, è molto più attento a vivere giorno dopo giorno. E io ne ho molto approfittato nelle ultime vacanze, che abbiamo trascorso insieme, e abbiamo parlato un poco di calcio. In questo libro che sto leggendo, in un capitolo c’è scritto che quelli di più di 50 anni cominciano a cambiare l’io per il noi. Iniziano a semplificare la vita, a ridurre l’ambiente per vivere in modo più semplice. Credo che oltre i 50 anni quando si profilano perdite affettive importanti, arrivano le prime nozioni del tempo che in un momento, finisce sul serio.

“El Diego”: il battito di una città innamorata e grata

“Sìììì, Tommy! Un personaggio!”. Esplode Gio quando sente che nel Napoli ci sono ancora impiegati dell’epoca di Maradona. “Ha sempre a portata di mano il darti un buon caffè… Le cose che avrà vissuto con Diego, mi ha promesso di raccontarmi molti aneddoti in una di quelle serate a cena. Ed è un grande, e non avete idea di cosa sia quando cammina per il corridoio dello spogliatoio e canta ‘Oleeee, Oleeeee, Oleee, Diegoooo, Diegooooo’. Come se  fosse rimasta la cassetta rotta, come io l’altro giorno che mi misi a cantare nel bel mezzo del campo la canzone di Rodrigo… non ti puoi contenere, c’è un’atmosfera speciale, unica, molto difficile da spiegare”.

Quanti genitori possono raccontare ai figli di aver giocato molti anni con Maradona? Pochi, tra questi Diego Simeone, che ha anche affrontato Maradona nell’allora San Paolo in un Napoli-Pisa nella stagione 1990/91. Gio vive a Posillipo, nella collina di Napoli ed è il primo argentino che gioca per il club nel ribattezzato stadio Diego Maradona.

“Sentivo volevo venire…, lo sentivo. Al di là della sua grandezza, della competitività del club, c’era qualcos’altro dentro di me che mi indicava che era Napoli. Dovevo venire qui. Non riesco a spiegarlo meglio.  A volte, perché sono sensibile a rispondere a queste chiamate interiori. Il destino mi diceva che dovevo venire a  Napoli. La trattativa a un certo punto  si è bloccata,  ma io di certo non mi sono mosso di un centimetro dal mio desiderio: volevo stare qua. Mai mi sono sentito come mi sento qui, a Napoli. Perché sono come tra italiani e argentini, così come io, come io mi sento”.

Primo in classifica in Serie A e un punteggio perfetto per la Champions… Ci sono limiti per il Napoli?

“Stare in una squadra che punta a grandi cose  è molto motivante, però, già il fatto di competere ogni tre giorni è fantastico. Non c’è nulla di più bello che questa cosa qua. Mio padre mi raccontava sempre che è un’ adrenalina differente, però finchè non lo vivi non lo comprendi fino in fondo. Hai bisogno che arrivi la partita successiva, questa atmosfera sfruttata di ogni stadio. Non c’è cosa più bella che giocare ogni tre o quattro giorni. A me piace superarmi sempre, non mi piace sentirmi comodo. Quando uno si sente comodo, allora cominciano i problemi. Per superarti hai bisogno di stare in una zona scomoda, fuori dai confort. Sentivo che ero preparato per competere in una squadra realmente grande. Ho lottato molti anni in Italia per potermi conquistare questa possibilità di stare in una grande squadra. Ed è arrivato il momento de convivere  e confrontarmi con grandi giocatori, ottimi giocatori. E mi sento preparato per questo”. Tre gol in 8 partite, ottimo inizio.

Il primo è stato speciale, al Liverpool, in Champions League. La prima partita della sua vita nella competizione sognata… e gol. L’emozione ha avvolto la festa: ha corso, aperto le braccia si è steso per terra, non ha nascosto le lacrime e finalmente ha baciato quel tatuaggio di quando aveva 14 anni. Un tatuaggio che dopo 13 anni aveva la sua ragion d’essere.

“In quel momento non ho pensato proprio a nulla, mi sono lasciato trasportare dalla magia del presente. Io lo avevo vissuto tante volte quel momento, sognandolo, però allora stava accadendo. Allora ho lasciato che accadesse… poi ho sentito che lo avevo già vissuto in una qualche maniera per averlo desiderato tanto. Allora, in una qualche maniera, gli altri stavano vedendo quello che io avevo già vissuto”

Colpisce il fatto  che Maradona è tanto presente a Napoli?

È impressionante. Tutti ti parlano di Diego qui. Tutti. Tutti, tutti, ti dicono che hanno vissuto qualcosa con Diego. E te lo raccontano con una passione, come se fosse capitato ieri..., ed è stato magari negli anni 90’. Diego non c’è, però c’è. Ce l’hanno presente sempre, tutti i giorni. La gente qui comunque soffre questa differenza tra il nord e il sud e Diego li ha salvati dall’oblio. Diego è allegria per loro e va molto oltre il calcio. ti raccontano che ha dato loro allegria, significato, visibilità e appartenenza alla loro vita. Questa è una città molto, molto appassionata e per loro aver avuto Diego tra loro è un grande orgoglio. Qui la gente ha un cuore grande, si dona, e Diego ha dato luce, ha dato speranza, li ha convinti che si poteva contro il potente nord. Così te lo raccontano ogni giorno. Ha lasciato un segno per sempre. Per  esempio, adesso molti mi dicono: ‘Siccome non andremo al  Mondiale, saremo tutti argentini’. Ci si aspetta molto dalla nostra Seleccion in Qatar, ed è per Diego. L’Argentina è parte di questa città.

Con quali immagini di Maradona sei cresciuto a partire dalla storia del Cholo?

Non mi hanno raccontato storie o aneddoti in particolare. Sì, sempre mi hanno detto che Diego era una persona che metteva il suo cuore per tutti, che andava in attacco per i compagni. E specialmente nella Seleccion; di Sevilla non mi ha mai detto nulla in particolare. Mi diceva che era un tipo che si metteva avanti, che difendeva tutti. E che questo lo faceva una persona nobile. Quando sono arrivato a Napoli, mio padre mi ha mandato un messaggio nel quale mi diceva che in Argentina tutti i bambini della sua epoca erano cresciuti con il Napoli di Maradona, e che tutti avevano il sogno un giorno di poter andare a giocare nello stadio nel quale aveva giocato Maradona… ‘E tu stai realizzando questo sogno, figlio’ – mi ha detto. Bello, bellissimo… Mi ha chiesto di apprezzare di stare nel luogo che tanti hanno tanto sognato.