A cura di: Redazione
Fonte: Napolicalcionews.it
Poiché i tempi che corrono son tali, che l’uomo moderno
tutto misura col clic, col tweet, e col rigore del VAR, parrà forse strano a
qualcuno che uno scrittore si metta a raccontare di una squadra di calcio come
si racconta d’una stirpe antica o d’un prodigio biblico. Ma tant’è. Noi, che
non possiamo far miracoli né modificar le classifiche, possiamo però dare
parola alla memoria, ché se c’è una cosa che ancor vale, è ricordare. E se poi
questo ricordo appartiene a un popolo che piange, canta, si angoscia e crede
con la stessa intensità… allora tanto meglio. Eccovi dunque una storia. Di
campo, di sangue sportivo, di una città che ha saputo attendere. Di Napoli, e
dei suoi quattro scudetti. Capitolo trentotto – ovvero della vittoria celeste della
città partenopea Quel popolo, che da lunga età camminava tra le angustie del
cuore e le strettoie dell’anima, finalmente vide levarsi all’orizzonte una luce
che pareva non più promessa, ma dono. Non erano passati pochi anni, né pochi
dolori. Dopo i due primi trionfi – che furono come il tempo della giovinezza,
quando ogni cosa è speranza e ogni voce è canto – sopraggiunse un silenzio
greve. Napoli, che un tempo avea toccato il cielo con l’invenzione del D1OS
sudamericano, con quel Diego che, più che uomo, pareva l'incarnazione del
divino, si ritrovò a camminar deserta tra gli stadi, come Lucia tra i monti,
perseguitata da forze che non le volean bene. E il popolo, ché tale era il vero
protagonista di questa istoria, non cessò mai di sperare. Sì, si lamentava, come
fa chi soffre; si divideva, come fanno gli innamorati delusi; ma nel fondo del
petto serbava quella brace viva che arde senza consumare. E venne l’anno del
Signore 2023, e parve che la Provvidenza – la vera protagonista, direbbe chi
scrive – si ricordasse di questa città. Una squadra umile, gagliarda, che
pareva fatta più per il cuore che per il nome, prese a vincere con quella
grazia che non nasce dalla forza, ma dal destino giusto. Si sparse un fremito
lungo via Toledo, un mormorio sul lungomare, e tutta la città cominciò a
credere che fosse vero. E scudetto fu. Ma ecco, ché la storia, si sa, non si
ferma alle pagine liete. Dopo il terzo, atteso per trentatré anni come fosse il
ritorno d’un Redentore, Spalletti – l’uomo che aveva condotto il popolo al trionfo
– se ne andò. Napoli, e il Napoli con lei, parvero cadere in un abisso
d’incredulità: dal trono alla decima piazza, lontani dall’Europa e da sé
stessi. Uno sgomento fitto, come nebbia su mare calmo. Ma quando il silenzio
pareva totale, giunse un nome: Conte. E con lui, sul motto: "Amma
faticá" una nuova promessa cominciava a farsi largo, s'immaginava la luce
al di fuori della caverna, ma non finì lì, non fu solo immaginazione . Perché,
come Renzo e Lucia che dopo mille traversie giunsero finalmente a nozze, così
Napoli giunse, con fermezza e dolore vinto, al quarto scudetto. Non uno in più
per caso, ma uno in più per riscatto. E allora chi scrive, pur essendo nato
sotto il Vesuvio, non può che inchinarsi dinanzi a questo popolo che ha amato,
atteso, sofferto e infine vinto. Non già per potere, né per oro, ma per fede. E
come Renzo disse a fine romanzo: "Abbiamo fatto un gran viaggio..."
così Napoli può dirlo ora, col cuore pieno e le mani levate al cielo. E in quel
momento – o voi che leggete e forse sorridete – tutto tacque. Tacquero le
trombe del dubbio, i cori velenosi dei nemici, le chiacchiere dei bar, le
trasmissioni urlate del lunedì. Restò soltanto Napoli. Napoli in piedi, Napoli
vestita d’azzurro come una sposa al suo giorno eterno. Il cielo parve calarsi
sul Maradona e si udì una voce, forse del Vesuvio, forse del tempo: "’O
scudetto, quanno arriva, nun se spiega: se canta".
E così sia. Canta Napoli. L'Italia è ai tuoi piedi. A cura di Luigi Pezzella
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