A cura di: Redazione
Fonte: Napolicalcionews.it
C'è stato un momento
preciso, quasi teatrale, in cui Simone Inzaghi ha varcato la soglia invisibile
che separa l’ambizione dalla "hybris". È accaduto quando, con il
petto gonfio e la voce ferma, ha risposto alla domanda su quale trofeo volesse
vincere: "Tutti e tre". In quel momento, il tecnico dell’Inter non
stava più semplicemente guidando una squadra di calcio; stava entrando in scena
in un dramma greco, dove l’eroe, accecato da un eccesso di fiducia in sé,
pronuncia la frase fatale che anticipa la sua rovina. Nella tragedia
antica, la "hybris" è il peccato dei grandi: non l’errore di chi
sbaglia, ma la colpa di chi sfida i limiti imposti dagli dèi. E proprio come
gli eroi omerici che osano troppo — Achille nella sua furia, Agamennone nella
sua arroganza — anche Inzaghi ha esibito una sovrastima del proprio potere, un
cieco affidarsi alla propria fortuna e alla macchina perfetta che credeva di
aver costruito. Ma gli dèi, si sa,
non tollerano la superbia. E così arriva la catastrofè, il rovesciamento del
destino. E come in ogni tragedia, la punizione non è mai immediata, ma procede
per gradi, come una marea che si alza silenziosa. La prima avvisaglia
è l’eliminazione dalla Coppa Italia — proprio quel trofeo che Inzaghi sembrava
aver trasformato in proprietà privata, uno scettro minore ma pur sempre regale.
E invece, di colpo, gli viene sottratto. Non una caduta rumorosa, ma
un'umiliazione silenziosa, che pesa più di una disfatta fragorosa. È la
"prima ferita inferta dagli dèi", un monito che l’eroe, accecato
dalla propria grandezza, ignora. Poi arriva il pareggio
in casa contro la Lazio. E il suolo di San Siro si fa tremulo come quello di un
tempio profanato. Lì ci si aspetterebbe che l’eroe, messo di fronte ai propri
limiti, riconosca la propria colpa. E invece no. Inzaghi, come tanti personaggi
tragici, non riesce a vedere sé stesso come causa del proprio crollo. La colpa
è del Var, dell’arbitro, del destino. Non della propria incapacità di domare
l’avversario. Qui il parallelismo
si fa netto. Nell’antichità, quando il disastro colpiva, l’uomo spesso cercava
un colpevole esterno: le Moire, le Erinni, forze oscure e ineluttabili che
guidavano le vite verso la rovina. Così anche Inzaghi, rifiutando di assumersi
la responsabilità, si rifugia nel mito moderno del "complotto
arbitrale", nella narrazione vittimistica che lo solleva dal dovere più
duro dell’uomo tragico: riconoscere la propria parte nel fallimento.
E quando il sipario
doveva calare, non poteva che arrivare la nemesis, la vendetta degli dèi. Il
colpo definitivo. Undici calciatori del Paris Saint-Germain, discesi in campo
come divinità olimpiche, hanno fatto da strumenti della giustizia eterna.
Freddi, lucidi, spietati, non hanno giocato una partita: hanno emesso una
sentenza. Hanno mostrato a Inzaghi e all’Inter che ogni parola detta con
arroganza, ogni responsabilità rifiutata, ogni sfida lanciata al cielo ha un
prezzo. E quel prezzo, come nelle tragedie antiche, si paga...fino
all’ultimo respiro. A cura di Luigi Pezzella
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